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NELL’OCEANO
(la guardia PAI Edoardo Lucarino e la strage del “Laconia”) 

 (di Fabrizio Gregorutti)

E’ una storia terribile dove i cattivi del tempo di guerra riconquistano parte della  dignità perduta, i buoni la perdono completamente e alcuni figli della Nazione più nobile e sfortunata nella Storia europea disonorano loro stessi e la loro Patria  rivelandosi spietati assassini. E’ la storia della guardia P.A.I. Edoardo Lucarino  e degli altri 1400 prigionieri italiani scomparsi nell’affondamento del piroscafo “Laconia”.  Edoardo è catturato dai britannici nel luglio 1942, durante le prime fasi della battaglia di El Alamein, lo scontro decisivo per le sorti della guerra in Africa del Nord. Dopo la cattura viene trasportato con altre migliaia di prigionieri verso un primo campo di transito in Egitto. Possiamo immaginare le condizioni. Caldo infernale,  mosche, tifo, cibo schifoso . E’ così che, forse con soddisfazione, Edoardo ed i suoi fratelli di sventura accolgono la notizia del trasferimento in un campo di prigionia oltremare. “Dove ci manderanno? “ “Ecchenesò, forse in Canada o in Inghilterra” “Maledizione, proprio adesso che Rommel sta per sfondare ed arrivare qua!” “E chi se ne frega di Rommel e dei crucchi. La guerra per noi è finita, tanto vale che stiamo tranquilli. Un anno o due a lavorare in qualche fattoria  e poi torneremo a casa” “Speriamo…” Edoardo ed altri 1.800 soldati italiani raggiungono Suez e qui vengono imbarcati sul “Laconia”, un vecchio transatlantico inglese trasformato in trasporto militare. Sarà la tomba per Edoardo e centinaia di nostri connazionali.  I soldati di scorta non sono teneri con gli italiani. Sono polacchi, i figli di una Nazione eroica e nobile, assassinata dalla spartizione tra Hitler e Stalin. Per la maggior parte sono ex prigionieri dei sovietici, sopravvissuti all’aggressione nazista, al tradimento da parte dei comunisti russi, al massacro delle fosse di Katyn,  e ora combattono con gli inglesi. I polacchi sono combattenti eroici, capaci di splendide gesta di valore e sognano  solo di poter liberare la loro amata Patria, ma quelli a bordo del “Laconia” non sono degni dei coraggiosi guerrieri che si copriranno di gloria a Cassino, in Normandia, sulla Linea Gotica e in Olanda: sin dall’imbarco i sorveglianti infatti si fanno conoscere dai prigionieri, i quali vengono picchiati e maltrattati.  Il 12 Agosto il “Laconia” salpa da Suez con il suo dolente carico umano. Quello che devono sopportare i prigionieri possiamo solo immaginarlo. Le  temperature equatoriali trasformano le tre stive della nave in uno spaventoso forno, dove l’aria bollente è resa irrespirabile dal puzzo di vomito, di feci, di cibo stantio e delle esalazioni di 1800 esseri umani ammassati gli uni sugli altri, esalazioni che cessano per pochi minuti al giorno quando i carcerieri polacchi ed i marinai britannici, sicuramente con indubbio divertimento (…”dai, facciamo il bagno ai macaroni!”) , aprono i boccaporti delle stive e, con delle potenti pompe, scaraventano sui prigionieri potenti getti di acqua gelida.  Il Korvettenkapitan Werner Hartenstein, 34 anni, comandante del sottomarino U156 salpa con la sua unità cinque giorni dopo dalla sua base sulla costa atlantica francese e, insieme ad altri U-boot tedeschi si dirige verso il mare aperto, a caccia delle navi Alleate. Verso l’appuntamento con il “Laconia”,  che viene inquadrato  dal  periscopio dell’U156 la sera del 12 Settembre 1942, al largo dell’isola di Ascensione nell’Atlantico Meridionale. Hartenstein non sa qual è il carico umano del “Laconia” ma riconosce l’unità per quello che è: un trasporto militare. Sicuramente riesce a distinguere dal periscopio anche i cannoni di cui la nave è stata provvista, forse pensa a una nave trasporto truppe diretta a Gibilterra o in Inghilterra, ma di certo un legittimo obiettivo militare: l’ennesimo successo per quello che è considerato l’asso dei sommergibilisti tedeschi. Senza staccare gli occhi dal periscopio ordina all’equipaggio di prepararsi all’attacco.  Sono passate da poco le 20,00 quando Edoardo Lucarino,  i suoi  1800 compagni di sventura  ed i circa 600 inglesi e polacchi a bordo del “Laconia” vengono sbalzati a terra dalle loro cuccette dall’impatto dei siluri. La nave si inclina immediatamente e l’equipaggio comprende che il vecchio transatlantico sta per morire. La Legge del Mare parla chiaro: la salvezza spetta prima alle donne ed ai bambini, a bordo ce ne sono diverse decine, per la maggior parte familiari di ufficiali britannici evacuati da Malta e dall’Egitto. Poi è la volta dei soldati imbarcati ed infine dell’equipaggio….ed i prigionieri? Le scialuppe potrebbero salvare  tutti, ma non accade. Gli italiani vengono dimenticati nelle stive, nelle quali l’acqua gelida dell’Oceano Atlantico inizia a filtrare all’interno, proveniente dagli squarci prodotti dai siluri, salendo lentamente ed inesorabilmente. In decine ed in centinaia corrono verso le uscite, facendosi strada come una mandria impazzita dal terrore. E’ la parte primordiale del cervello a prendere il sopravvento, quella animale, quella della bestia in trappola. “Avanti! Avanti! Non ci possono mollare qui, dai andiamo! Dai! Non ti fermare, non ti…” invece sono costretti a fermarsi di colpo. Qualcuno cade a terra, viene travolto e non riesce a rialzarsi dal pavimento, schiacciato dalle altre centinaia di uomini che stanno sopraggiungendo. “Che sta succedendo?!? Cosa c***o sta succedendo?!?” sta succedendo che le grate che bloccano le stive non sono state aperte e al di là ci sono alcuni soldati polacchi che imbracciano i fucili con la baionetta innestata, puntati contro di loro. “Tirateci fuori di qui! Tirateci fuori di qui! L’acqua sta salendo!”. La pressione della massa umana contro le grate cresce, con lo stesso ritmo con il quale il livello dell’acqua sta salendo nelle stive. La risposta sono incomprensibili e secchi ordini in polacco ed inglese e forse in cattivo italiano “Via da porta o noi spara!”.  “Non spareranno, non possono lasciarci crepare così!”. Invece i polacchi sparano e gli italiani cadono in tanti, uccisi o feriti. Se Edoardo Lucarino è morto così, è stato uno dei fortunati. Quindi i polacchi feriscono a colpi di baionetta coloro che tentano ancora di sfondare le grate poi arretrano verso il ponte e verso la sicurezza delle scialuppe, mentre gli italiani cercano di sfuggire alla morte. E’ solo in una delle stive che i prigionieri riescono a sfondare le grate che li tengono prigionieri ed a scaraventarsi sul ponte, in cerca di salvezza. Gli inglesi ed i polacchi stanno cercando scampo con le scialuppe di salvataggio. Gli italiani si gettano in mare e si dirigono a nuoto verso le imbarcazioni del “Laconia” ma qui accade qualcosa che ancora oggi in molti rifiutano di credere, perchè non può essere vero, perchè dev’essere per forza l’ invenzione di qualche folle, della propaganda, ma che i pochi sopravvissuti raccontano ancora a bassa voce, con gli occhi a terra, come ad esorcizzare quell’orrore cui hanno assistito, quando ad alcuni dei prigionieri che riescono ad aggrapparsi alle fiancate delle scialuppe i marinai inglesi  mozzano le mani a colpi d’ascia. Poi il “Laconia”  si inabissa in mare, trascinando con sé nelle profondità oceaniche centinaia di italiani chiusi ancora nelle due stive. Quello che ricorderanno i sopravvissuti sarà lo spaventoso muggito di orrore emesso da chi è ancora intrappolato nella nave e poi l’improvviso silenzio che regna sulle acque dell’Oceano Atlantico quando le onde si chiudono sulla tomba di centinaia di esseri umani. Un silenzio rotto dal primo grido d’angoscia  “Aiuto! Aiuto!”  La brezza marina frusta il viso del comandante Hartenstein quando esce sulla torretta del U156 appena riemerso. Il mare è cosparso di rottami della nave appena affondata, da chiazze d’olio e nafta e da alcune scialuppe di salvataggio. Hartenstein si guarda attorno. Cosa prova? Il brivido del cacciatore che ha appena ucciso la preda ? oppure dentro di sè ripete a se stesso “E’ stato mio Dovere. Era il Nemico, era…” per non dovere crollare di fronte alla realtà?  “Aiuto! Aiuto!” Hartenstein, sbigottito, si volta verso i propri ufficiali.  “Aiuto!”  “Italienisch!” esclama incredulo uno degli ufficiali tedeschi. Hartestein fa il suo dovere di Uomo e di Soldato, issa a bordo oltre un centinaio di naufraghi, assiste gli altri e informa via radio i propri superiori a Berlino dell’accaduto. In Germania il comandante della Marina tedesca, Doenitz, fa delle rapide considerazioni. Sono i giorni subito prima di El Alamein e della disfatta in URSS, l’atmosfera non è delle migliori tra Berlino e Roma e certo la notizia di quasi duemila italiani finiti in mare dopo un siluramento da parte tedesca non contribuisce a migliorarla. L’unico rimedio è quello di darsi da fare per i soccorsi. Nella zona vengono inviate le uniche unità disponibili, due U boot tedeschi e il sommergibile italiano “Cappellini” , il quale non giungerà in tempo. Di propria iniziativa Hartenstein lancia un messaggio in chiaro sulle frequenze radio britanniche, proponendo al nemico un cessate-il-fuoco per collaborare insieme ai soccorsi. Gli inglesi non rispondono, temendo una trappola.  Hartenstein e gli altri comandanti continuano ad aiutare le centinaia di naufraghi del “Laconia” per quanto è possibile che lo facciano delle piccole unità come le loro, nell’attesa che arrivino in soccorso le navi francesi, in quel momento non belligeranti e che hanno promesso il loro intervento. Poi, la mattina del 16 Settembre sul cielo dell’Atlantico appare un bombardiere americano proveniente da Ascensione. Hartenstein lancia un messaggio, chiedendo soccorso per i naufraghi. L’aereo non risponde, ritorna alla base ed i piloti raccontano al loro comandante che cosa hanno visto: gli U-Boot tedeschi e accanto a loro le centinaia di naufraghi ancora in mare, a bordo delle scialuppe o sul ponte dei sottomarini. Il comandante americano ha due scelte difficili di fronte a sè. Alcune versioni asseriscono che informa i vertici militari statunitensi i quali danno un ordine atroce, altre versioni dicono che è lui stesso a prendere la decisione, ma il risultato non cambia. Gli U-boot costituiscono un obiettivo strategico nella battaglia per l’Atlantico e i naufraghi del “Laconia” sono considerati sacrificabili. Il bombardiere torna indietro e si prepara a distruggere gli U-boot. Hartenstein lancia un messaggio radio ai piloti americani, chiedendo di non attaccare per non mettere in pericolo i naufraghi, fa ripetere il messaggio da un ufficiale britannico prigioniero ed infine espone una grande bandiera della Croce Rossa. E’ inutile. L’aereo lancia le bombe di profondità. Hartenstein, furioso per quello che considera un tradimento, è costretto, per salvare la propria nave ed i propri uomini, ad inabissarsi nelle profondità oceaniche, sotto gli occhi increduli e disperati dei superstiti del “Laconia” che non si sono potuti imbarcare sui sottomarini tedeschi.  E’ l’inizio dell’agonia dei naufraghi, soli ed abbandonati. Solo in pochi verranno salvati dalle unità navali francesi giunte finalmente in soccorso e  dal sommergibile italiano “Cappellini”, arrivato in zona pochi giorni dopo. Gli altri moriranno a centinaia, di sete, disidratati, ustionati dal sole, divorati dagli squali.   I pochi italiani sopravvissuti, ma anche i loro carcerieri, devono la vita al comandante Hartenstein ed ai marinai dell’U156, i quali avevano certo servito un governo criminale, ma che nella vicenda del “Laconia” si comportarono nobilmente cercando di salvare quante più vite possibili. Mi piace pensare che i marinai tedeschi in quei pochi giorni tornarono ad essere Uomini, sino a che la guerra con il suo orrore non li riportò alla realtà. Werner Hartenstein ed i suoi marinai scomparvero nell’affondamento dell’U156 avvenuto  l’8 Marzo 1943, al largo di Barbados. Ora dormono il sonno eterno degli Eroi, nel profondo dell’Atlantico.
Il governo italiano, nel Dopoguerra, non chiese ragione agli Alleati sui motivi che portarono alla morte di 1400 nostri connazionali che potevano e dovevano essere salvati. Edoardo Lucarino e i suoi fratelli a bordo del “Laconia” furono colpevolmente dimenticati e riposano ancora laggiù, nel profondo dell’Atlantico.
Non ci sono fiori sulla tomba di colui che è morto in mare, recita una poesia dei marinai del tempo di guerra, ma solo il pianto della madre ed il battito d’ala del gabbiano.
Dopo oltre 65 anni è tutto quello che riman
e.   

(per la Redazione Cadutipolizia: Fabrizio Gregorutti)