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I GIRASOLI
(di Fabrizio Gregorutti)

Sei cresciuto sotto la dittatura che ti ha convinto della invincibilità delle armi italiane e degli immancabili destini della Patria. Sei stato un balilla, come tutti gli italiani della tua età. Avevi 16 anni quando l’Italia ha conquistato l’Etiopia ed hai gioito, entusiasta ed orgoglioso di essere italiano. Poi è stata la volta della guerra in Spagna e anche lì hai gioito per le vittorie della Patria. Solo tuo padre ha scosso la testa, scettico e lo hai sentito dire una volta, riferendosi ai gerarchi del Partito “Questi idioti si riempiono la bocca della parola Patria, ma non saranno contenti finchè non la faranno finire con il sedere per terra” mentre parlava con un paio di amici, come lui reduci delle trincee della Grande Guerra. Poi ti hanno strappato da tua madre e dalla tua fidanzata  che eri poco più di un ragazzo, vestito di una divisa grigioverde di panno grezzo, sbattuto tra le mani un moschetto ’91, ti hanno detto che per salvare l’Europa dal mostro bolscevico e dalle potenze demo-pluto-giudaico-massoniche dovevi combattere e ti hanno ordinato di salire verso quella tradotta militare diretta al fronte. E tu l’hai fatto, con la morte in gola, ma ci sei salito su quel treno. Durante quel lunghissimo viaggio hai pensato mille volte a scendere, a scappare da quel maledetto treno, a  gettare la divisa ed il fucile e scomparire nel nulla. Ma non l’hai fatto. Forse perché ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene. Poi, in un magnifico giorno d’estate, il treno ha superato un ponte su un fiume grande cento, mille volte il fiume più grande che tu abbia visto in Italia e intorno a te, in una pianura talmente sconfinata da farti quasi male agli occhi, li vedi. Sono delle incredibili distese di girasoli. Un’ immensa e sfolgorante pianura dorata che fa ala al passaggio del tuo treno, che sembra scomparirvi dentro. Non puoi distogliere lo sguardo, affascinato da quella visione e ti senti in pace. “Benvenuti in Russia” dice il tuo tenente a te ed ai ragazzi del tuo plotone. Ti sei battuto come tutti gli altri tuoi commilitoni contro il nemico che è deciso a ricacciare indietro te, invasore della sua Patria. Hai vissuto, mangiato, dormito in trincee fangose, dove la spaventosa melma dell’autunno russo quasi ti strappa gli scarponi chiodati dai piedi. Hai vissuto l’arrivo del terribile inverno con le temperature che scendono a oltre 40 ° sotto zero. Hai ucciso tanti nemici in assalti alla baionetta, durante sanguinosi corpo a corpo, per ricacciare indietro oltre la sponda del grande fiume i soldati con la stella rossa decisi a tutti i costi a liberare la loro terra. Hai raccolto i tuoi amici morenti sotto il fuoco nemico, trascinandoli verso un riparo sicuro e hai ascoltato le loro ultime parole “ Mico…dì a mia madre…dì a mia moglie…dì ai miei figli…” nessuno di loro ha rivolto l’ultimo devoto pensiero all’Uomo del Balcone e nemmeno alla Patria, ma solo alle persone che ha amato. Hai capito che sei stato spedito laggiù, male armato e male equipaggiato da parte di una dittatura talmente cinica da sfruttare i tuoi vent’anni e quelli della tua generazione per ottenere risultati politici sulla vostra pelle, al fianco di un alleato indegno che ti guarda con disprezzo mentre tu e i tuoi fratelli sopportate l’inferno. Continui a combattere, a soffrire, a uccidere. Non combatti per  il Re ed il Duce, ma per i fratelli accanto a te. Loro sono la tua Patria, ora. Il 15 Gennaio 1943 i russi sfondano. Tu e gli altri resistete finchè potete poi siete costretti ad arretrare. Come diavolo potevate resistere  senza quasi artiglierie controcarro e senza carri armati  contro i terribili T34 dell’Armata Rossa? Come diavolo ha potuto pensare l’Uomo del Balcone, che ha rubato i tuoi vent’anni ed il tuo patriottismo che sarebbe bastato il tuo patetico moschetto ’91 a fermare decine di migliaia di soldati sovietici meglio armati e desiderosi di vendetta? Ti sei ritirato insieme agli altri, aprendoti la strada combattendo contro il nemico che vuole chiuderti in una sacca e pensi che ogni chilometro verso ovest che riesci a superare è un chilometro in più verso l’Italia. Marciate nella neve anche per dodici ore al giorno e combattete alla baionetta contro il nemico anche soltanto per conquistare una casa dove trascorrere la notte o per impossessarsi dei magnifici e caldi stivali in feltro dei soldati sovietici e a volte ti tocca combattere anche contro i camerati tedeschi che ti strillano “Raus!” per cacciarti fuori dalle case di cui si sono impossessati. Durante la ritirata molti dei tuoi amici, dei tuoi fratelli crollano nella neve. Hanno gli arti blu a causa del congelamento  non riescono più  a muoversi.  “Mico, finiscimi, non mi lasciare morire così, non mi fare prendere vivo dai russi”  ma tu non ci riesci, come puoi farlo?  E così ti allontani nella colonna che marcia lentamente verso ovest, inseguito dalle grida sempre più flebili che, a volte vengono interrotte da uno sparo, quando il tuo fratello riesce a trovare dentro di sé la forza per porre termine alla propria sofferenza. Continui a marciare verso ovest. Ogni chilometro che riesci a superare è un chilometro in più verso l’Italia. Combatti e cerchi di sopravvivere in ogni modo finchè arrivate in un costone sopra un villaggio e vi accorgete che la strada è bloccata dai russi. Ti lasci cadere con le ginocchia nella neve e mormori distrutto “No…no…no…”  non può finire così, non deve finire così, devi tornare a casa, non puoi crepare in questo posto di merda. Gli alpini si stanno battendo nel villaggio, a ridosso del terrapieno della ferrovia dove sono attestati migliaia di soldati sovietici. I soldati italiani stanno cadendo a decine, a centinaia per conquistare un sottopassaggio ferroviario che permetterà loro di sfondare e tornare a casa. Cosa facciamo? Cosa facciamo? Ti chiedi nervosamente. Tra poco, alle vostre spalle piomberanno gli altri russi…se non attaccate ora…poi si sente un grido “AVANTI, TRIDENTINA!” saprai poi che è un generale degli Alpini che ha deciso di prendere la situazione in mano ed ha chiamato a raccolta i propri ragazzi, guidandoli all’assalto delle posizioni nemiche. E allora all’assalto! Dietro a quel villaggio, dietro al terrapieno ferroviario c’è l’Italia! Scendi dal costone, insieme alle altre migliaia di soldati che hanno marciato con te, una valanga umana decisa a sfondare a tutti i costi e con loro urli qualcosa che nemmeno tu riesci a capire,  imbracciando il tuo moschetto e spari fino a che l’arma non è scarica poi attacchi alla baionetta battendoti casa per casa insieme agli altri fino a che un proiettile sovietico non ti colpisce alla testa, facendoti crollare a terra, sulla neve rossa di sangue italiano e russo. Guardi il cielo e ti chiedi incredulo e sotto shock come fai ad essere ancora vivo.  E’ andata bene, il proiettile ti ha colpito di striscio alla tempia, intaccando l’osso, ma la ferita non è grave. Sei vivo, pensi mentre un ufficiale medico ti benda sommariamente e i rumori della battaglia cessano lentamente, sostituiti da voci trionfanti. Voci italiane. Sei vivo! Tornerai a casa! Poi guardi tutti quei corpi sulla neve e tra le case semidistrutte del villaggio e pensi a tutti i fratelli perduti durante la ritirata dal grande fiume a lì. Le tue mani iniziano a tremare e scoppi a piangere. L’ufficiale medico se ne accorge e ti mormora “E’ finita, ragazzo mio…stiamo tornando a casa”

 

Domenico Taverna fu uno dei pochi Soldati italiani a tornare dal fronte russo. Altri 84.000 italiani non ci riuscirono e ora dormono per sempre laggiù, tra la Russia e l’Ucraina meridionale, traditi dal menefreghismo del dittatore desideroso di qualche migliaio di morti per sedersi da vincitore al tavolo della pace e che li aveva gettati allo sbaraglio, in mezzo allo scontro tra le tirannie più feroci del Ventesimo Secolo. Domenico riuscì a ritornare a casa, dai propri cari e dalla ragazza che amava e che sposò, mettendo su con lei una famiglia della quale era orgoglioso. Al termine del conflitto si arruolò in Polizia, continuando a servire la propria Patria diventata ora una Democrazia, ed affrontò gli anni tumultuosi del dopoguerra, contribuendo a difendere il proprio Paese, cercando di farne un posto migliore, dove nessun uomo su un balcone potesse più mandare dei ragazzi di vent’anni a morire, dopo averli derubati dei loro Ideali. Negli anni ’70 ormai maresciallo e prossimo alla pensione, divenne il responsabile della Sezione di Polizia Giudiziaria del Commissariato Appio Nuovo, a Roma. Anni difficili, che probabilmente il maresciallo Taverna non era in grado di capire, con la violenza diffusa nelle strade. Tutto quell’odio, tutto quel sangue…e per cosa? Un uomo come lui che di certo aveva negli occhi l’orrore di quello spaventoso gennaio del 1943 e lo spettacolo dei corpi dei propri fratelli mandati a morire in nome della politica, non poteva accettare che nella Patria che nel suo piccolo aveva contribuito a ricostruire, esistesse gente disposta a togliere vite ad altri esseri umani ed ancora in nome della politica…
Forse in quegli anni furono in molti a dirgli “Mico, molla…ma chi te lo fa fare? Non ne vale più la pena. Ormai manca poco per la pensione, hai quella vecchia ferita di guerra, approfittane. Puoi andartene prima, magari vai al paese giù in Calabria con tua moglie.” Ma il maresciallo Taverna non lo fece. Non scese dalla tradotta nemmeno ora.  Non alzò le mani, come non aveva fatto allora, forse perché ci voleva più coraggio a restare, anche soltanto per quei pochi anni prima della pensione, che ad andarsene ed  abbandonare i suoi fratelli. Continuò a restare nel proprio ufficio, ad affrontare la varia umanità del quartiere, senza mollare mai, senza abbandonarsi allo sconforto. Fino alla mattina del 27 Novembre 1978, quando un commando delle Brigate Rosse lo uccise nei pressi di casa, mentre stava per andare in ufficio.   Gli spararono quando non poteva difendersi, mentre saliva a bordo della sua auto e poi se ne andarono dicendo di avere ucciso un nemico del popolo. Non ebbero il coraggio di affrontarlo faccia a faccia, come avevano fatto i russi tanto tempo prima, i quali avevano difeso la loro Patria. I brigatisti, invece, quel fegato non ce l’avevano…dopotutto come si può pretenderlo da dei traditori che cercavano di distruggere il proprio Paese? Domenico invece, quel coraggio lo possedeva. Il coraggio di uscire dall’inferno e ricostruire dalle ceneri di un mondo impazzito un luogo dove fosse bello vivere, in nome di quegli 84.000 che sono rimasti laggiù, tra i girasoli.

(per la redazione di cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti)