Redazione
Chi Siamo
Collabora
Contatti
Articoli
Rubriche
Links
Guestbook
Forum
Cerca

Homepage

 

NESSUNA CONSEGUENZA
(di Fabrizio Gregorutti)

(la lunga guerra civile italiana - 3°-)

Milano, Via Larga. 19 Novembre 1969

I colleghi balzano dalla jeep, manganello in pugno, dirigendosi di corsa verso il cuore degli scontri, dove la lotta è più feroce. Tu ingrani la marcia e insieme alle altre jeep del Reparto punti dove il gruppo dei contestatori è più violento, da dove parte il lancio di oggetti contro gli uomini del III Reparto Celere di Milano. Bottiglie, pietre, bastoni e tubi di acciaio smontati da una impalcatura vicina che colpiscono il tuo veicolo sul cofano e sulla capotte di tela rigida. La via sembra esserne letteralmente ricoperta da quei maledetti tubi e la tua jeep sobbalza quando ci passi sopra, ma tu non ci badi. Insieme agli altri autisti, il vostro compito è quello di impedire la formazione di gruppi di rivoltosi più violenti, usando la tattica chiamata dei “caroselli”, cioè di cerchi concentrici sempre più ampi, destinati a disperdere quelli che all’epoca, con un eufemismo burocratico, vengono chiamati “i facinorosi”. E tu fai il tuo bravo carosello, mentre la tua  bocca è secca per la paura e cerchi di stare attento a non investire nessuno e, soprattutto, a non sbagliare manovra ed a finire tra la vicina folla, tra le centinaia di persone che urlano slogan e brandiscono contro di te e gli altri poliziotti armi di fortuna. Come quel ragazzo dal volto coperto da una sciarpa rossa che impugna un tubo metallico come fosse un giavellotto. Per un attimo riesci  a scorgere gli occhi del ragazzo e rimani spaventato dall’odio che ci leggi dentro. Una pietra colpisce la fiancata destra del mezzo ed istintivamente ti giri sorpreso in quella direzione. E’ in quel momento il ragazzo con la sciarpa rossa attacca.  Con una rapida corsa esce dalla folla, raggiunge il tuo lato della jeep e brandendo il tubo come se fosse una lancia, lo scaglia contro di te. Il tubo ti colpisce alla base del collo con tanta forza da trapassarti da parte a parte. Il dolore è lancinante, atroce, sconvolgente, ti esplode nel cervello. Non riesci a renderti conto di che cosa ti sta accadendo e del perché senti il sapore del sangue della tua bocca. Crolli sul volante della jeep che si ferma improvvisamente con un sobbalzo e piano piano tutto diventa oscuro.  Non senti l’urto dell’altra jeep alle tue spalle e nemmeno gli altri ragazzi del Reparto che ti hanno raggiunto e ti guardano ad occhi spalancati. “Antonio…” è l’ultima parola che senti, prima che l’anima abbandoni il tuo corpo.

La Guardia di Pubblica Sicurezza Antonio Annarumma, appartenente al III Reparto Celere di Milano,  muore il 19 Novembre 1969. E’ un Poliziotto come tanti di quegli anni. Proviene da Monteforte Irpino, un paese in provincia di Avellino, dove è nato 22 anni prima da una famiglia di braccianti agricoli. Un ragazzo normalissimo che ha trovato quello che si chiama un “posto sicuro” in Polizia, ma che è stato scaraventato nella contestazione del  ’68 e degli anni successivi , in quelli che qualcuno  ha definito “anni formidabili” .  Ora è solo un corpo senza più vita sul sedile di guida di una jeep della Polizia, con un tubo che lo ha trapassato da parte a parte e una pozza di sangue che si allarga sempre di più sul pavimento dell’auto. La rabbia per l’accaduto tale da far perdere la testa a molti agenti. Antonio è uno di loro. Come loro si è sobbarcato per mesi sputi, lanci di oggetti, attacchi da parte degli studenti, gente che, secondo l’ottica della maggior parte dei Poliziotti di allora, sono solo un branco di figli di papà scansafatiche che sputano su opportunità che loro avrebbero solo sognato. Come loro si è svegliato ancora prima dell’alba per andare in servizio di ordine pubblico, avendo come “genere di conforto” (il grottesco nome del sacchetto di cibo contenente il pranzo) solo un panino alla mortadella e una bottiglietta di succo di frutta, e rimanendo in servizio sino  a tarda serata a ricevere la quotidiana razione di disprezzo da parte degli odiosi figli di papà. Come loro vive in camerate militari dove il riscaldamento d’inverno funziona quando capita, dove i cessi sono perennemente otturati e dove quando vuoi fare la doccia devi andare negli appositi locali ricavati nel piazzale (fantastico soprattutto nelle gelide temperature dell’autunno e dell’inverno0 milanese). Come loro ha rischiato la vita (ed ora è morto) per quattro maledetti soldi di stipendio. La rabbia è feroce, decine, forse centinaia di  Poliziotti urlano di voler vendicare Antonio, afferrano le armi e cercano di uscire dalla Caserma di via Umberto Cagni per fare giustizia sommaria. Il generale di pubblica sicurezza che tenta di trattenerli, trattandoli con disprezzo ed arroganza, viene cacciato dagli agenti ormai sull’orlo dell’ammutinamento. La Caserma viene circondata dal Battaglione dei Carabinieri e si sta per arrivare ad uno scontro tra Corpi dello Stato che non ha precedenti dal 1943. La catastrofe viene scongiurata solo grazie all’intervento di alcuni ufficiali di Polizia amati e rispettati, i quali riportano alla ragione i propri uomini. Ugualmente però alcuni agenti, ritenuti tra i capi dell’ammutinamento, vengono inviati al Tribunale Militare e  diversi di loro vengono discretamente destituiti.

Le altre vittime di Via Larga.

L’assassino di Antonio non è mai stato scoperto.

Nel racconto lo abbiamo definito un “ragazzo dalla sciarpa rossa”, ma la verità è che nella concitazione degli scontri di quel giorno in via Larga nessun testimone onesto ha mai potuto vedere l’omicida.

L’assassino non ha mai pagato per quello che ha fatto, ma ciò che è peggio, viene ancora protetto da una omertà sconvolgente da parte di molti intellettuali di sinistra che, ancora oggi, nonostante le prove, le testimonianze, le risultanze dell’inchiesta, continuano a sostenere la tesi di un incidente tra la jeep di Antonio e un altro automezzo della Polizia, un incidente trasformato dai biechi sbirri in omicidio per denigrare la protesta del ‘68. Un vero e proprio tentativo di depistaggio intellettuale, compiuto nell’intento di allontanare dal Movimento Studentesco e più in generale dai gruppi di contestatori di allora (ai quali in molti appartennero) il sospetto della diretta responsabilità del primo omicidio degli Anni di Piombo. Voglio illudermi che forse fu fatto in buona fede, nella speranza da parte degli ex contestatori che nessun “sognatore”, nessun “ribelle”, nessun “ragazzo del ‘68” si sia reso responsabile di un delitto tanto atroce. Voglio illudermi che sia per questo motivo, ma purtroppo temo che non sia così. Temo invece che sia scattato un meccanismo, forse inconscio, di omertà mafiosa.

Dopotutto Antonio era uno sbirro e per di più “terrone”, mentre l’individuo che gli strappò la vita era di certo uno studente, forse  addirittura appartenente alla borghesia milanese, sicuramente però protetto da una solidarietà ignobile che gli ha permesso di vivere indisturbato questi 38 anni che ha tolto ad Antonio.

Non credo che quell’individuo negli anni successivi sia transitato nel terrorismo, non lo credo perché un delitto simile, in quegli ambienti sarebbe stato considerato come  una medaglia al valore e il nome dell’esecutore sarebbe uscito allo scoperto prima o poi. Credo invece che sia diventato un bravo borghese, come volevano papà e mamma, ed abbia vissuto questi anni come professionista affermato. Una bella moglie e un paio di figli (fatti studiare in scuole private, per carità) e una bella amante, stipendio alto, investimenti oculati, a Natale vacanze alle Maldive e in estate magari una bella gita ai Caraibi.

Una vita che non ha avuto conseguenze, dopo quel “piccolo errore” di Via Larga.

(per la redazione di Cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti)